Walter FIliputti / Wine manager

“La vita può essere capita solo all’indietro, ma va vissuta in avanti”
Soren Kierkegaard, filosofo, teologo e scrittore.
Copenaghen (05maggio 1813 - 11 novembre 1855).
Mi definisco una persona fortunata, essendo riuscito a trasformare il mio hobby nella mia professione. Vignaiolo per decenni, oltre che enomanager e winemaker, attualmente seguo – per la WIFI-Wine and Food Innovation srl, della quale sono amministratore – progetti di sviluppo di diverse cantine.
Docente universitario di “Linguaggio e comunicazione del vino” presso la Facoltà di Agraria (corso di viticoltura ed enologia) di Milano, sono autore di opere sulla cucina e sul vino.
Dal novembre 2017, docente presso l’Università di Udine - Dipartimento di studi umanistici e del patrimonio culturale – nel master biennale Gestione del turismo culturale e degli eventi, all’interno del quale è inserito il comparto dell’enogastronomia.
Presidente del Consorzio Friuli Venezia Giulia Via dei Sapori, per il quale elaboro – per la WIFI srl - progetti di comunicazione del territorio attraverso il vino e la cucina.
Al vino mi sono avvicinato grazie ai sommelier dell’Ais (Associazione italiana sommelier), del cui gruppo dirigente ho fatto parte per vent’anni circa.
Ho avuto incarichi professionali in Friuli, Toscana, Sicilia e Veneto, che hanno riguardato molte piccole e medie aziende vinicole. In Friuli tra le più importanti furono i Ronchi di Cialla – dove ho portato, per la prima volta nella regione, l’affinamento in barrique, vendemmia 1977 - e poi Vigne dal Leon, Ronco del Gnemiz, Borgo Conventi, Vazzoler, Castello di Spessa. In Veneto Col Sandago; in Toscana I Balzini.
Ho seguito anche aziende controllate da grandi gruppi, come Genagricola delle Generali, creando marchi come Torre Rosazza, Borgo Magredo, Sant’Anna tra Friuli e Veneto, collaborando per dodici anni col presidente di allora, dottor Giuseppe Perissinotto, persona che considero tra le più importanti per la mia evoluzione professionale e umana.
Inoltre, in Toscana ho collaborato a lungo con l’avvocato Calogero Calì nella sua azienda Rocca di Castagnoli.
Per saperne di più
La cultura dell’osteria
L’esser nato e vissuto in osteria – si chiamava Da Germano, il nome di mio padre – è stato determinante. Siamo a Percoto, piccolo centro friulano a sud di Udine. L’osteria era conosciuta per gli ottimi vini che il papà selezionava con maestria. Mentre la mamma – detta Mimi, da Maria – faceva alta cucina tradizionale ripensata già allora. Il “contagio” col mondo dei sommelier mi riportò a casa, dopo la laurea, per cambiare radicalmente lo stile del locale: nacque la Trattoria da Germano che condussi, assieme a mia moglie Patrizia, dal 1976 al 1979. Luigi Veronelli, bontà sua, dichiarò essere – nel 1977 – il migliore ristorante d’Italia. Fu un locale molto innovativo, in particolare nei vini e nei suoi abbinamenti con il cibo, dove avevo applicato le teorie sviluppate nella tesi di laurea sul sommelier. La carta dei vini raccoglieva i migliori vini del Rinascimento italiano, oltre che francesi. Ogni anno riportava in copertina la riproduzione di un’opera inedita di un pittore moderno friulano. La prima – quella del 1976 – la firmò l’artista Aldo Colò, mentre l’art director era Flavia Gori che, da allora, avrebbe seguito gran parte dei miei lavori, anche per le etichette e i libri.
1973: la tesi di laurea sul sommelier
Avevo studiato per diventare commercialista. In effetti ci provai, ma dopo poco più di un anno lasciai tutto per guardare al vino. In questa “crisi mistica” di gioventù, mi rivolsi al medico di famiglia – il dottor Zimolo – che vedevo ogni giorno in quanto la nostra osteria era il suo recapito per le visite in paese. Era diventato il mio “confessore”. Gli esposi la mia confusione su ciò che avrei voluto fare. Mi disse: “Ricordati che il lavoro è il sale della vita. Se lo ami, oltre a non pesarti, lo farai bene”. Fu così che abbandonai il sogno di fare il commercialista per seguire quello che sarebbe diventato il “sale della mia vita”: entrare nel Rinascimento del vino italiano che stava sbocciando.
Nel 1969, ancora studente all’Università di Trieste, fui colpito, su una delle strade udinesi più celebrate per le sue osterie, via Poscolle, dal “fulmine” dell’Associazione italiana sommelier, nata da poco grazie all’allora fiduciario, Teo Pizzolini, oste maximo della sua memorabile Speziaria pei sani. Fu così – e grazie a lui – che, nel 1971, entrai a far parte, a 26 anni, del consiglio nazionale dell’Associazione, un’avanguardia di cultori della qualità del vino che ebbe una parte molto importante in quello che sarebbe diventato il Rinascimento del vino italiano. Mi si aprì un mondo. Conobbi e divenni amico di personaggi di straordinaria statura, sia umana sia professionale, che mi diedero moltissimo.



Fui talmente conquistato dal nuovo verbo dei sommelier che decisi di scrivere una tesi che restò l’unica del settore: “L’importanza del sommelier e la sua funzione di educazione enologica del consumatore”, dove immaginavo lo sviluppo di una professione ancora sconosciuta. Previsione che si rivelò corretta (Mi laureai il 1° marzo del 1973 presso la Facoltà di economia e commercio di Trieste).
Avevo già iniziato a scrivere per la rivista Il Vino grazie a Isi Benini, giornalista della Rai di Udine. Era il più bel periodico sul vino italiano e il primo numero uscì l’1 dicembre del 1971. Il Vino fu fondato da Benini stesso, assieme al fotografo Mario Casamassima. Qualche anno dopo iniziai a collaborare con Luigi Veronelli. Con Benini divennero i miei mèntori.





1974. Il primo incarico professionale presso la cantina di Marco Felluga.
Marco fu uno dei miei grandi maestri di vita e di lavoro. Mi chiamò per il lancio di Russiz Superiore. Uomo di altissima statura intellettuale e imprenditoriale, aveva a lungo preparato il suo cru di Russiz. Tra gli impegni, quello che riguardò l’etichetta fu un lavoro complesso al quale non trovavamo soluzione. Alla fine, grazie a Luigi Veronelli, ci rivolgemmo a Silvio Coppola, già autore dell’etichetta del Tignanello, vino creato da Piero Antinori nel 1971, capostipite dei grandi rossi moderni italiani.
“Architetto e designer al fianco dell’imprenditore-umanista Adriano Olivetti, Silvio Coppola arriva al mondo delle etichette in maniera casuale, portando con sé un approccio trasversale e transdisciplinare, fatto di consapevolezza spaziale, di misura estetica e coscienza tecnica, di sensibilità artistica e competenza tecnologica. Un approccio che guarda all’azienda a 360°, considerando l’etichetta come elemento di un racconto tridimensionale più ampio”.
Nel 1975 ci rivolgemmo a lui. Nascerà un progetto grafico altrettanto innovativo del Tignanello, ma profondamente diverso. Mentre l’etichetta di Antinori comunicava un vino da tavola e il nome della vigna coincideva con quello del vino, in questa, per scelta di Marco, la Doc doveva esserci. Per cui erano tre le voci da indicare: il cru (Russiz Superiore), la Doc (Collio) e il nome del vino, che era il medesimo del vitigno. Fu un’altra etichetta di profonda innovazione, che creò tendenza alla pari di quella toscana.
Marco è un vulcano d’idee che porta avanti con grinta e decisione. Nel 1977 va a trovare Luigi Veronelli, al quale chiede d’individuare almeno venti aziende di alta qualità, una per ogni regione, per creare un gruppo che, assieme, facesse promozione. Nel 1978 viene così fondata la VIDE (Vini italiani di eccellenza). Fu per molti anni punto di riferimento della qualità del vino italiano. Il loro stand al Vinitaly divenne simbolo di come si potesse collaborare per far crescere, nello stesso tempo, l’immagine dei vini italiani e le relazioni commerciali delle singole aziende.
Dopo Russiz acquisterà altre tre aziende: La Poggiona in Toscana e, in Friuli Venezia Giulia, il Castello di Buttrio e Zuani a San Floriano del Collio.
Nel 1999 diventa presidente del Consorzio Collio (ora è ad honorem). Durante i suoi due mandati affronta diversi temi cruciali, come ridare forza e immagine al “Collio bianco” e “Collio rosso” interpretati, da allora, come vini bandiera delle aziende, con l’obiettivo di rafforzare il territorio unendo il vino al nome della Doc. Risolve, da par suo, uno dei problemi che stavano lacerando in vignaioli: modificare i disciplinari di produzione per ammettere anche i vini dal colore “dorato carico”, quelli stile Gravner, per intenderci. Marco ricorda: “I puristi dicevano che i vini ambrati avrebbero falsificato il concetto di vino riconosciuto come Collio. Come li ho convinti? Dicendo loro che il nostro patrimonio è la diversità: che noi siamo nati dalla diversità”.
Dal 2000 l’azienda è passata al figlio Roberto, che lavorava col padre fin dal 1980.

1977 Una nuova professione
Nel 1977 avvio la mia professione di winemaker, o più esattamente di Enomanager, come poi un giornale economico la definì. Il Friuli era in piena espansione enologica. Fu la prima regione in Italia a dare una svolta moderna ai vini bianchi (al pari e contemporaneamente alla Toscana nei rossi), sia nello stile sia nella comunicazione sia nel marketing. Completo la mia formazione con studi a Bordeaux e a Beaune, oltre che con pratica sul campo, accanto ai tanti vignaioli che ebbi la fortuna e l’onore di conoscere. Questo tirocinio lo considero il mio vero Ph.D.
Grazie anche agli studi di economia e marketing, applicati al Rinascimento del vino italiano che stava sbocciando, compresi il momento socio economico. In Friuli la quasi totalità delle aziende era molto piccola. Ci sarebbe stato bisogno di professionisti che sapessero guardare le aziende a 360°: non solo scelte enologiche, ma anche elaborare progetti in tutti i passaggi della filiera: dal mercato alla vigna. Proprio così: bisognava, prima di piantare una vigna, guardare al mercato, mentre si faceva il contrario. Oggi può far sorridere, ma nel 1977 di marketing oriented non si parlava, se non in casi rarissimi. Dopo il Friuli, allargai le consulenze alla Toscana, alla Sicilia e al Veneto.
1978. Il sogno realizzato: diventare vignaiolo
Nonostante che il mio padrone di casa per molti anni fosse l’Arcivescovo di Udine – che, ad un certo punto, scordò i millenari insegnamenti sulla riconoscenza e sulla bontà d’animo – considero il lungo periodo dedicato al restauro agrario dei vigneti e delle cantine dell’Abbazia di Rosazzo, incominciato nel 1978, di fondamentale importanza.
Nel volgere di pochi anni l’Abbazia ritornò ad essere quel faro d’innovazione che la storia ci documenta fosse stata durante la secolare reggenza dei Benedettini. Il restauro agrario fu maniacale. Nel Monasterium Rosarum la storia si riaccese grazie all’incoscienza di un giovane entusiasta che, in quelle cantine, andava ad acquistare vini con suo padre per l’osteria di famiglia.


1983, 15 gennaio. Vincitore del Premio Risit d’Aur dei Nonino foto premio con Turoldo
Per il recupero e il reimpianto del Pignolo, la giuria del “Premio della Civiltà contadina” delle distillerie Nonino, mi assegnò il Risit d’Aur (barbatella d’oro) 1983.
Fu David Maria Turoldo a consegnarmelo. Era il suggello di un lavoro incominciato nel 1978, quando arrivai all’Abbazia di Rosazzo.

1983, giugno. Des oenologues italiens en stage à Beaune

1983, 22 maggio. La cena delle stelle all’Antica Trattoria Boschetti di Tricesimo.
Due scuole di pensiero, che stavano dando nuova linfa alla cucina italiana, ebbero in Friuli un battesimo insperato.
All’epoca ero fiduciario dei sommelier per il Friuli Venezia Giulia. Frequentavo molto Franco Colombani, che era il presidente dei sommelier italiani. Divenne amico di famiglia. Il suo locale – Al Sole di Maleo – era tra i più belli che conoscessi: come entrare in una casa privata arredata con mobili del Cinque e del Seicento!
Franco era “contagioso” di carattere, affabile e faceva una cucina regionale straordinaria, impregnata di ricerca storica e culturale.
Marchesi era apparentemente più distaccato e viveva la sua metamorfosi come un filosofo che deve elaborare nuovi teoremi esistenziali. Il suo ristorante era modernissimo, con tocchi preziosi, sculture di grandi artisti milanesi che abbellivano i tavoli; i suoi piatti erano sbalorditivi, sia per la creatività sia per la capacità di creare nuovi accostamenti di sapori. La sua cucina mi attraeva come un quadro di Picasso.
Tra Colombani e Marchesi era come chiedersi: meglio un Caravaggio o un Picasso?
Personalmente ero trasversale ai due partiti: andavo a vedere il derby e non tenevo per nessuna delle due squadre. Anche se il cuore batteva dalla parte di Colombani, non potevo esimermi dall’applaudire i gol di Marchesi.
Bene! Ebbi l’idea di creare un incontro, aiutato da Antonio Piccinardi, fra i due leader che si sarebbero dovuti confrontare al cospetto – dissi loro – di non più di 30-40 giornalisti ed amici.
Il tema era far parlare tra loro i sostenitori delle due scuole di pensiero: la nouvelle cuisine e la cucina regionale italiana. Scegliemmo il Boschetti, in Friuli, come teatro della disputa.
Alla fine eravamo in 180 ospiti, fra cui numerosissime testate con i loro direttori arrivati da tutta l’Italia.
Prima della cena ci fu il convegno. Dopo la mia breve presentazione, relatori furono Marchesi, Colombani, Andreas Hellrigl di Merano, Piccinardi e Veronelli.
Le relazioni, che conservo gelosamente, sono ancora attualissime. I due capiscuola menarono dei fendenti non da poco. Sì, era la prima volta che s’incontravano tante primedonne della cucina italiana della quale rappresentavano due visioni allora opposte. Poi la civilissima disputa si concretizzò a cena, che si tenne nel salone del Boschetti di Giorgio Trentin, addobbato da oltre 500 rose.
Accettò l’invito anche il Conte Nuvoletti, allora presidente dell’Accademia della cucina italiana, che aveva detto – di ritorno da Vienna – che si sarebbe fermato per un’oretta. Restò fino alle due di notte. Alla cena invitammo anche Rosita e Ottavio Missoni, che accettarono. (L’invito lo scrissi su di un tovagliolo del Boschetti due settimana prima, dove ero a cena con Paola a Gianni Mura. Furono loro a recapitarlo ai Missoni. Da allora stringemmo una profonda amicizia anche con la loro famiglia).
Gli chef così si sono presentati.
Ha aperto le danze Andrea Hellrigl, del Villa Mozart di Merano, con uno spumone di rane e code di scampi. Andrea era geniale e della scuola di Marchesi. Di lì a poco sarebbe andato ad aprire Il Palio, ristorante di straordinaria bellezza e fascino a New York. Quindi toccò a Colombani, con il suo profumatissimo minestrone alla genovese. Il minestrone fu portato in sala nelle zuppiere dell’antica collezione che la Richard Ginori ci aveva inviate. Quando tolsero i coperchi, un profumo di primavera e basilico avvolse il salone e scoppiò un applauso spontaneo. Colombani si emozionò a tal punto che ne servì troppo nei piatti, tanto da lasciare senza un tavolo di dieci commensali. Si scusò dando loro un buono per una cena gratuita presso il suo ristorante. Memorabile.
Dopo Colombani ecco Marchesi, che presentò l’astice alle punte di asparagi verdi. La composizione del piatto era minimalista. Cotture perfette. Equilibrio ineccepibile. Grande piatto, ma che non sollevò l’entusiasmo riservato a Colombani. Quindi lo chef di casa Boschetti, Vinicio Dovier, col suo delizioso capretto di Ampezzo al forno. Chiusero Annie Feolde e Giorgio Pinchiorri con una coinvolgente mousse di frutto della passione e limone verde.
Fu un trionfo. Ai tavoli le preferenze sui piatti erano il tema centrale delle discussioni. Nessuno si alzava. Quando stavamo per salutarci, ecco la provocatoria battuta di Isi Benini: “no se lasseremo mica come cani”. Al suo invito aderirono in parecchi, tra cui i Missoni. Andammo avanti fino alle quattro di mattina con le canzoni goliardiche di Isi e quelle triestine di OttavioMIssoni.
La morale della “Cena delle stelle “ dopo molti anni?
Come diceva Colombani: la cucina si divide in due categorie: quella buona e quella cattiva.
Foto menu e frontespizio di Flavia/ Missoni con me e Marco che canta.

1987, 6 aprile. Presentazioni dell’opera “I vini del Friuli visti da Missoni” alla Galleria Marconi di Milano
L’amicizia coi Missoni si era cementata, oltre che da una reciproca simpatia, anche grazie a ottimi pranzi e cene innaffiati da altrettanti grandi vini. In uno di questi incontri chiesi a Ottavio Missoni se poteva immaginare, una sua creazione per riassumere i tanti colori dei vini friulani: dalle sfumature dei bianchi a quelle dei rossi per finire con i grandi vini dolci quali Picolit e Ramandolo. Ci pensò. Dopo qualche mese mi disse di portargli tutti i campioni delle diverse tipologie di vino in bottigliette bianche (scelsi quelle del Gingerino). Le sistemò sul grande tavolo di lavoro, spostando pezze di maglia e quaderni sui quali disegnava le sue collezioni. Le mise proprio davanti a se. Passavo a trovarlo, come ormai facevo da tempo e le bottigliette erano sempre lì. Mi guardava ridendo come per dirmi: prima o dopo vedrai che lo farò. Finchè mi chiamò: “Go fato el lavor. Vien veder se te piase”. Dio mio se mi piaceva. Una lunga stoffa di seta a mo’ di arazzo, i cui colori sono formati da tantissimi piccoli punti che tratteggiano le sensazioni cromatiche dei vini che, a loro volta, disegnano onde sinuose. Restai in silenzio. Estasiato. Il 6 aprile del 1987, alla Galleria Marconi di Milano, presentammo l’opera, con il presidente della Camera di Commercio di Udine Gianni Bravo, alla quale Missoni aveva donato l’opera. Cucinò Gianni Cosetti. Mesi dopo andammo a Monaco di Baviera per una serata sull’enogastronomia nostrana. Presentammo “I vini del Friuli visti da Missoni” con Rosita e Ottavio assieme a noi, attorniati da centinaia di ammiratori e tantissimi giornalisti.


La stampa internazionale
I vini da me prodotti o seguiti hanno raggiunto livelli di eccellenza internazionale (come testimoniano le valutazioni di Robert Parker e Wine Spectator) e nazionale (tre bicchieri del Gambero Rosso, cinque grappoli Associazione Sommelier, Luca Maroni, Guida dell’Espresso, Soli di Veronelli) e sono stati costantemente presenti nella stampa specializzata. Ne sono prova gli articoli usciti su importanti giornali nazionali e internazionali (New York Times, Frankfurter Allgemeine, ad esempio), le numerose apparizioni e testimonianze in video quali Linea Verde su Rai 1, Rai 3, su Rete4, oltre a frequentissimi interventi radiofonici.



Nel 2000 un’ulteriore innovazione professionale: non solo vino, ma anche cibo e alta ristorazione.
Era il settembre del 2000 quando un gruppo di amici ristoratori friulani – con i quali collaborai per anni, perché facenti parte dei sommelier, dei quali ero fiduciario regionale – mi offrì la possibilità di guidare Friuli Venezia Giulia Via dei Sapori, neonato consorzio fondato da venti dei i migliori ristoranti della regione. Ciò che mi affascinò fu la forte componente visionaria del progetto: collegare il bene personale a quello generale della valorizzazione del territorio d’appartenenza. Accettai la sfida con entusiasmo.
Da allora ne sono il presidente e l’ispiratore.

In pochi anni, a questo progetto hanno aderito oltre quaranta aziende tra artigiani del gusto e vignaioli che, sommate ai venti ristoranti, fanno del Consorzio la summa dell’eccellenza del Friuli Venezia Giulia con oltre sessanta aziende associate. Da loro e con loro ho avuto nuovi e preziosi stimoli.
E’ stata creata una squadra di campioni, della quale sono diventato allenatore. Una squadra che ha saputo elaborare e dare concretezza operativa al Gruppo con una nuova visione del turismo: portare su quel palcoscenico attori che ne erano quasi esclusi, come la grande ristorazione, i vignaioli e gli artigiani del gusto d’eccellenza. Facendoli lavorare assieme in maniera organizzata e sinergica per cogliere tutte le opportunità che il Belpaese offre.
Per questa capacità di fare sistema, l’Università Bocconi di Milano ha dedicato al Consorzio, nel 2012, il caso di studio “I solisti del gusto. Il Caso del Consorzio Friuli Venezia Giulia Via dei Sapori”, e che l’Università stessa ha poi inserito nel suo Master Internazionale di Food & Beverage.

Ludovica Leone, la ricercatrice, scrive: “Walter Filiputti è animatore di un progetto innovativo e dirompente in un tessuto e in una cultura imprenditoriale nella quale la collaborazione non è sempre vista come un valore positivo… Walter è persona stimata e rispettata da tutti nella zona ed è riconosciuto come uno dei principali opinion leader dell’agroalimentare del Friuli Venezia Giulia. Forti della collaborazione di Walter… e confidenti sulla sua leadership carismatica, il gruppo inizia la sua attività”.
Per cui, dal 2000, il raggio di azione della WIFI-Wine and Food Innovation Srl – della quale, lo ricordiamo, sono amministratore – si è esteso alla ristorazione e alla produzione agroalimentare di alta qualità. Tale attività si è poi ampliata al turismo, con particolare attenzione al rapporto col territorio e l’enogastronomia, settori per i quali WIFI Srl studia e sviluppa progetti integrati sia in Italia sia transfrontalieri per enti pubblici e associazioni.
La vendemmia 2021 è stata la mia quarantesima.
La passione per l’insegnamento
La passione per l’insegnamento si era manifestata già agli inizi della lunga militanza con l’Ais (Associazione italiana sommelier). Grazie alla mia tesi di laurea, entrai nel gruppo d’insegnanti per la formazione dei sommelier, che si attuava attraverso corsi che si tenevano in ogni regione italiana. Ebbero un ruolo fondamentale sia nell’educazione del consumatore sia nella formazione degli addetti ai lavori. Fu grazie a quest’impegno che ebbi la possibilità di conoscere tutta l’Italia enologica che stava aprendosi al Rinascimento, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, entrando in contatto con i capostipiti dei vini innovativi che poi avrebbero scritto la storia moderna del vino italiano.
Con la maturità, il desiderio d’insegnare riemerse in maniera decisa, spinto dalla convinzione che fosse un dovere morale ritornare ai giovani quanto avevo ricevuto dai miei tanti maestri. Così incominciai alla Facoltà di Enologia di Udine – con sede a Cormòns – dove creai il corso di “Linguaggio e comunicazione del vino” che, dopo 5 anni, portai a Milano, grazie al prof. Attilio Scienza, presso la Facoltà di viticoltura ed enologia a Milano. Inoltre, tengo un master sulla cultura del vino e del cibo per la Ca’ Foscari di Venezia, nella sede di Valdobbiadene.
Il corso di “Linguaggio e comunicazione del vino” prevede, fra le altre, la lezione sui bicchieri, per spiegare come le forme dei calici incidano in maniera determinate sulla percezione dei profumi e dei gusti del vino, (si lavora con 5 diversi bicchieri e 4 diversi vini.) Lezione che entusiasma gli studenti.
L’idea del corso è di Georg Riedel. Era stato suo padre – il professor Klaus – ad avere la geniale intuizione che le forme dei bicchieri influenzassero, in maniera decisiva, la percezione dei profumi e dei gusti del vino. Egli più volte chiese un parere sull’attendibilità della sua scoperta ai sommelier del Consiglio d’amministrazione di allora, del quale facevo già parte. Nel 1973, il professore presentò a Orvieto, in occasione del congresso nazionale dei sommelier, la sua teoria dei bicchieri. Era nato ufficialmente il bicchiere pensato per il vino. Klaus Riedel dedicò ai sommelier italiani i nuovi calici che chiamò, appunto, “Serie Sommelier”, tuttora la più prestigiosa dell’azienda, in quanto di cristallo soffiato.
Il bicchiere del Chianti Classico Riedel.
La passione per l’insegnamento si era manifestata già agli inizi della lunga militanza con l’Ais (Associazione italiana sommelier). Grazie alla mia tesi di laurea, entrai nel gruppo d’insegnanti per la formazione dei sommelier, che si attuava attraverso corsi che si tenevano in ogni regione italiana. Ebbero un ruolo fondamentale sia nell’educazione del consumatore sia nella formazione degli addetti ai lavori. Fu grazie a quest’impegno che ebbi la possibilità di conoscere tutta l’Italia enologica che stava aprendosi al Rinascimento, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, entrando in contatto con i capostipiti dei vini innovativi che poi avrebbero scritto la storia moderna del vino italiano.
Con la maturità, il desiderio d’insegnare riemerse in maniera decisa, spinto dalla convinzione che fosse un dovere morale ritornare ai giovani quanto avevo ricevuto dai miei tanti maestri. Così incominciai alla Facoltà di Enologia di Udine – con sede a Cormòns – dove creai il corso di “Linguaggio e comunicazione del vino” che, dopo 5 anni, portai a Milano, grazie al prof. Attilio Scienza, presso la Facoltà di viticoltura ed enologia a Milano. Inoltre, tengo un master sulla cultura del vino e del cibo per la Ca’ Foscari di Venezia, nella sede di Valdobbiadene.
Il corso di “Linguaggio e comunicazione del vino” prevede, fra le altre, la lezione sui bicchieri, per spiegare come le forme dei calici incidano in maniera determinate sulla percezione dei profumi e dei gusti del vino, (si lavora con 5 diversi bicchieri e 4 diversi vini.) Lezione che entusiasma gli studenti.
L’idea del corso è di Georg Riedel. Era stato suo padre – il professor Klaus – ad avere la geniale intuizione che le forme dei bicchieri influenzassero, in maniera decisiva, la percezione dei profumi e dei gusti del vino. Egli più volte chiese un parere sull’attendibilità della sua scoperta ai sommelier del Consiglio d’amministrazione di allora, del quale facevo già parte. Nel 1973, il professore presentò a Orvieto, in occasione del congresso nazionale dei sommelier, la sua teoria dei bicchieri. Era nato ufficialmente il bicchiere pensato per il vino. Klaus Riedel dedicò ai sommelier italiani i nuovi calici che chiamò, appunto, “Serie Sommelier”, tuttora la più prestigiosa dell’azienda, in quanto di cristallo soffiato.
Il bicchiere del Chianti Classico Riedel.

Da allora rimasi affascinato da quella scoperta. Quando innovai la trattoria di famiglia, per avere i Riedel – era il 1976 – andai ad acquistarli a Merano e poi me li facevo spedire per ferrovia a Udine.
Tale passione mi portò a seguire da vicino, fino a diventare amico del figlio del professore, Georg. Per spiegare al mondo del vino la validità della scoperta del padre, mise a punto quello che poi sarebbe diventato il corso sui bicchieri.
Nel 1990 cominciai a collaborare con l’avvocato milanese Calogero Calì per lanciare la sua magnifica Rocca di Castagnoli, a Gaiole in Chianti. Fu l’avvocato a fare scattare l’idea del bicchiere sul Chianti. “Ma perché, mi disse un giorno, il suo amico Riedel mai ha pensato a un calice per il più importante vino italiano, il Chianti classico?”. La piacevole provocazione fu immediatamente raccolta. Dopo un lungo lavoro anche a Kufstein, nella sede della Riedel, il bicchiere del Chianti classico, primo della Riedel ad esser dedicato ad un vino italiano, fu presentato proprio a Rocca di Castagnoli il 22 settembre 1991. Alla nascita e allo suo sviluppo del quale avevo fattivamente collaborato.

Attuali incarichi (2022)
- Presidente del Consorzio Friuli Venezia Giulia Via dei Sapori.
- Vice Presidente Confcommercio Udine con delega al turismo.
- Docente di enogastronomia presso l’Università di Udine – Dipartimento di studi umanistici e del patrimonio culturale – nel master biennale Gestione del turismo culturale e degli eventi.
- Consulente della Camera di Commercio di Pordenone-Udine per progetti culturali ed enogastronomici.
- Incarichi professionali di consulenza alle aziende vinicole sia in Friuli Venezia Giulia sia all’estero.