Walter FIliputti / IL BICCHIERE: STRUMENTO PER “ASCOLTARE” LA MUSICA DEL VINO.
LA DEGUSTAZIONE: IL MOMENTO PIU’ ALTO PER CELEBRARE IL VINO

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L’importanza di bere un vino nel suo bicchiere ideale.
La musica come potremmo ascoltarla senza gli strumenti? E come faremmo ad essere rapiti dalla magia di un dipinto di Vermeer o di Caravaggio o di tutti i grandi artisti se le loro opere non fossero illuminate in maniera perfetta?
Il bicchiere, o meglio, la forma del bicchiere assume la medesima importanza: è lo strumento indispensabile per poter carpire l’essenza, l’anima del vino.
Certo, ogni tipologia di vino dovrebbe avere il proprio bicchiere, ma troppo spesso quest’attenzione manca. Sia perché non mancano i bicchieri corretti da vino sia, quando ci sono, sono usati in maniera sbagliata.
Io mi ribello perché:

La storia del bicchiere del vino moderno.
Il bicchiere da vino lo ha inventato la Riedel di Kufsteisn, in Austria, anche se qui calici parlano un po’ anche italiano. La storia di questa famiglia incominciò nel 1756, nel nord della Boemia, oggi territorio della Repubblica Ceca. Nata come piccola azienda dedita al commercio del vetro, Riedel ha sempre manifestato, generazione dopo generazione, una grande capacità di crescita e innovazione.
Claus Riedel – 9° generazione – era geniale: fu il primo al mondo a intuire che le dimensioni e la forma del calice influivano sulla percezione degli aromi e del gusto. E’ a questo punto che la sua storia – e quella dei primi bicchieri al mondo pensati per il vino – s’incrociano con quella della giovane Associazione di sommelier. Agli inizi degli anni Settanta, Claus Riedel chiese di venire a Milano per parlare con il gruppo dei sommelier, di cui io facevo parte. Ci disse che voleva verificare se la sua intuizione era giusta. Non si dimentichi che, allora, si degustava nel bicchier INAO, uno dei calci più assurdi mai concepiti (lo dico in quanto li detestavo ben prima di entrare in contatto con Riedel). Così iniziò una collaborazione che avrebbe portato più volte a Kufstein più alcuni di noi, in particolare Angelo Solci, a fare degli assaggi.
Il risultato fu che al VII congresso, tenutosi ad Orvieto nel 1973, Claus Riedel presentò, nel gremito teatro della città, la sua teoria sul bicchiere creato per il vino. La linea di bicchieri che nacque da quell’intuizione la chiamò “serie Sommeliers”, in onore dei sommelier italiani.
L’idea rivoluzionaria di questi eleganti calici, ancora oggi soffiati a bocca presso lo storico stabilimento di Kufstein, fu quella di pensare il bicchiere in funzione del vino, mentre fino ad allora la forma privilegiava lo stile, il design, la capacità artigianale nella lavorazione del cristallo stesso. Il bicchiere, anche nella cultura veneziana, era vissuto come un oggetto da arredo, una ricerca artistica e mai era stato pensato in funzione del contenuto.

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Il calice da Pinot nero-Nebbiolo (Barolo – Barbaresco) più celebre della “Serie Sommeliers” di Riedel.

Il design.
Claus Riedel ribalta questo concetto: progetta, per la prima volta al mondo, il bicchiere funzionale al vino, rifacendosi all’idea del design moderno per il quale, per dirla con Domenico De Masi “Bellezza, praticità, produzione di serie, basso costo, attenzione ai mutevoli bisogni quotidiani dei consumatori furono e restano gli elementi connotativi del design”. Prima c’era l’estetica che è – ancora con De Masi, “la disciplina che più di ogni altra si incarica dell’umana felicità”. Il design, invece, “ci rende felici nell’intimità della vita quotidiana. La grande arte – quella delle cattedrali opulente ed ei palazzi signorili – è aristocratica per sua natura. Il design, invece, è democratico fin dalla nascita, ponendosi il problema di unire l’utile al bello e di offrirne la sintesi alla borghesia e al proletariato”.
Sì, il lavoro di Claus Riedel e poi del figlio Georg ed ora del nipote Maximilian, entra a pieno titolo in questa filosofia.
Nei bicchieri Riedel l’attenzione scientifica per la forma può essere riproducibile e contattare e contagiare, col suo stile, gli appassionati di vino del mondo intero, come è accaduto. Forme essenziali, in cristallo sottile e liscio, con un lungo stelo. Una soluzione tanto semplice quanto brillante, che esalta tutte le caratteristiche organolettiche di ogni vino.
Per noi giovani sommelier – in quel 1973 al teatro di Orvieto – fu come un imprimatur. Eravamo testimoni di un evento storico che avrebbe cambiato per sempre la degustazione dei vini. Un’epoca era finita, quella del calice avulso dal suo contenuto.

Se a Claus Riedel va certamente dato il merito della geniale intuizione, suo figlio Georg avrebbe poi creato i presupposti per far conoscere questa immensa scoperta in tutto il mondo. Il valore aggiunto di Georg – determinato come il padre a produrre qualcosa che non contenesse semplicemente il vino, ma che lo nobilitasse – fu quello di progettare nuovi bicchieri in funzione di ogni tipologia di vino. Iniziò così la produzione di calici studiati per specifici vitigni. Alla linea Sommeliers si sono affiancate, via via, altre rinomate serie soffiate a macchina come, ad esempio, Vinum, Vinum Extreme e altre ancora, sempre in cristallo.

Per convincere prima i vignaioli e poi i ristoranti della veridicità della scoperta, Georg mise a punto un corso sui bicchieri che dimostra quanto sia fondata ed inattaccabile la teoria di suo padre. Dal luglio 2013 Georg ha posto a capo dell’azienda suo figlio Maximilian – 11° generazione – nato nel 1977, a sua volta creatore di bicchieri da vino e d’innovativi decanter.
Chi scrive ha il privilegio di poter tenere questi corsi in Italia, oltre che averli introdotti nel mio corso di Linguaggio e Comunicazione del vino, che tengo ai laureandi in viticoltura ed enologia alla facoltà di Agraria di Milano.
Il percorso didattico è tanto curioso quanto affascinante, nonché tecnicamente ineccepibile. Si può lavorare sia 5 bicchieri diversi – Chardonnay, Sauvignon, Pinot Nero-Nebbiolo, Cabernet e il jolly, che è il calice classico da osteria – sia con tre: Pinot nero-Nebbiolo, Syrah e Cabernet.
Nel primo caso i vini sono 4: Chardonnay in legno, Sauvignon profumato e non in legno, Pinot Nero o Nebbiolo (Barolo o Barbaresco) e Cabernet sauvignon affinato in legno. Quattro vini, ognuno dei quali è assaggiato nei diversi calici per cogliere le profonde diversità passandolo da bicchiere a bicchiere.
Partendo, invece, con calici di Pinot nero-Nebbiolo, Syrah e Cabernet possiamo aprire lo studio dell’influenza delle forme assaggiando acqua freddo. E’ l’ultima innovazione portata da Riedel in questa dimostrazione.

Calici Riedel “Serie Veritas”

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Pinot Nero-Nebbiolo / Syrah / Cabernet

“Si usa, ci dicono alla Riedel, acqua naturale, 1 bottiglietta da 0,500 per persona, possibilmente Panna o Evian, servita tra 3° e I 5° gradi.
Il concetto è quello di usare un liquido senza odore e sapore per non influenzare il gusto o olfatto, ma usare solo il senso del tatto al fine di comprendere la differenza di flusso tra una forma e l’altra, capendo quindi il perché una determinata forma sia associata alle caratteristiche del determinato vitigno.
Si procede versando l’acqua nei tre calici.

-Si parte dal calice Pinot nero, piccolo sorso, e chiediamo al pubblico di localizzare all’interno della propria bocca dove sia posizionata la sensazione di freddo lasciata dall’acqua.
Bevendo dal calice Pinot nero, sentiremo freddo solo sulla punta della lingua, mentre le altre parti della bocca risulteranno non toccate dal flusso d’acqua.
Da qui l’associazione col Pinot nero, vitigno dai toni delicati che posizioniamo solo sulla punta per aumentare l’intensità del gusto.
-Si passa poi al calice Syrah, piccolo sorso. Noteremo che, questa volta, non solo la punta della lingua è fredda, ma anche le parti più laterali e profonde, ma ancora non la parte centrale.
Ciò è dovuto alla forte angolatura della forma “ad uovo” che ci costringe a reclinare la testa e alzare il calice più in alto, accelerando quindi il flusso per riuscire a raggiungere anche le parti laterali della lingua. Quindi dolcezza e acidità sono aiutate dalla forma Syrah, comunque considerata la forma adatta al maggior numero di vitigni rossi.
-Si passa infine al calice Cabernet e si nota come finalmente tutta la lingua ed il palato siano rinfrescate dal flusso di acqua fredda.
Il dimetro del calice, il più ampio tra i tre, consente quindi un flusso generosa capace di raggiungere tutte le parti della nostra lingua.
Da qui la funzione varietale del calice Cabernet, adatto solo a vitigni molto concentrati.
Questa degustazione di acqua fredda è oggi sempre l’inizio di ogni degustazione Riedel perché strumento perfetto per capire come la forma influenzi il flusso e quindi la percezione dei vari vitigni”
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Come nasce un bicchiere da vino: quello del Chianti Classico.
Anno 1990. Seguivo come consulente enologico e commerciale Rocca di Castagnoli, a Gaiole in Chianti, stupenda azienda agricola con vigneti e oliveti dell’avvocato milanese Calogero Calì.
L’avvocato sapeva della mia amicizia con Giorgio Riedel. Un giorno mi disse: “Ma perché Riedel non pensa al bicchiere del vino italiano più conosciuto al mondo, il Chianti Classico?”. Raccolsi l’invito, garbatamente provocatorio (In effetti, allora, nessun calice Riedel portava un nome di vino italiano). Ne parlai. Fu così che di lì a poco ci riunimmo (era l’autunno del 1990) a Kufstein, in Austria, dove la Riedel produce. Eravamo in tre: Georg Riedel, Willi Breuer, allora mio distributore in Germania, grande amico e raffinato degustatore e il sottoscritto. Il compito: verificare, con degustazione alla cieca, la compatibilià dei bicchieri allora in produzione col Chianti Classico. I Chianti erano cinque, rigorosamente anonimi, come erano cinque le forme dei bicchieri, disposti su cinque file (a formare un quadrato) e su ogni fila in posizione diversa. Il tema da svolgere? Individuare i cinque vini seguendoli nei loro passaggi nei diversi bicchieri. Molto più difficile di quanto sembri.
Doverosa premessa. Allora i chiantigiani usavano, tutti, il calice a ballon aperto.

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Passò più tempo del previsto per arrivare a capo della degustazione. Alla fine le valutazioni erano vicinissime. C’era un vino, in particolare, che era nettamente il migliore per tutti noi e che non trovavamo nella quarta fila. Pareva si fosse dileguato. Dov’era finito? Nel calice che noi ritenevamo, in linea teorica, quello più adatto al Chianti, quello a ballon, appunto: in quel bicchiere il vino scendeva dai 16/18 agli 11/12 punti: irriconoscibile! Il nuovo bicchiere sarebbe stato completamente diverso: a forma d’uovo allungato.

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La verifica avvenne 1’11 giugno 1991, alla Casa del Vino di Firenze, alla presenza del Gotha del Chianti: un comitato composto da 23 persone tra tecnici e produttori, oltre ai giornalisti: dal marchese Piero Antinori ad Ambrogio Folonari, da Vittorio Frescobaldi a Roberto Stucchi Prinetti. Dagli enotecnici Giulio Gambelli, Andrea Mazzoni, Maurizio Castelli; era presente la dirigenza del Consorzio del Classico ed i giornalisti Cesare Pillon, Burton Anderson, Peter Hersberg, oltre a Georg Riedel, Angelo Gaja, oltre al sottoscritto.
Furono degustati quattro Chianti di diverse annate (’82, ’85 e ’86) e portati dai produttori, serviti ogni volta in cinque calici diversi, tra cui quello proposto per il Chianti. Ogni degustatore era chiamato a valutare il migliore bicchiere con un primo posto. I risultati? Il bicchiere che poi divenne quello ufficiale del Chianti, ottenne ben 69 primi; a pari merito – secondi – i calici Willsberger e Rodenstock per rossi bordolesi con 13 primi posti; il “ballon” dove si beveva il Chianti 8 ed il bicchiere INAO uno.
Era nato il calice del Chianti Classico, il primo a portare il nome di un vino italiano.

Le funzioni del bicchiere.
Il primo contatto con la nostra lingua determina l’impressione generale del vino, perchè in quel momento si attivano i sensori gustativi, compresi quelli responsabili della persistenza aromatica.
Ogni forma del bicchiere canalizza il vino sulla lingua in punti diversi (come semplificato dalla figura) e questo per esaltare l’equilibrio e l’armonia del vino stesso. Oltre che mettere in corretta evidenza la parte olfattiva.

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In breve: è lo strumento per meglio ascoltare l’anima del vino.
Deve essere sempre di buona capacità e mai va riempito per oltre un terzo, questo per consentire una perfetta ossigenazione e quindi aprire l’effluvio di sensazioni olfattive che si espandono nello spazio vuoto.
Deve avere il gambo lungo. Il calice va sempre preso per il gambo e mai sulla parte che contiene il vino: per non alterarne gli odori (la nostra mano porta con se’ odori di fumo, sapone, sudore ) e la temperatura, quest’ultima estremamente importante per una corretta percezione delle qualità del vino. Infatti, anche servire un vino alla temperatura sbagliata può pregiudicare la percezione della sua qualità.
Ancora: è consigliabile, prima di servire, avvinare i calici con un goccio del vino stesso, per togliere al bicchiere eventuali odori di armadio, detersivo, cartone, straccio.

Il colore e il cristallo.
Il colore del vino è un elemento essenziale ed il materiale che consente una trasparenza perfetta con un indice di rifrazione altissimo – il che permette di accentuare i riflessi all’interno del vino – e’ il cristallo. Ne deriva una considerazione importante: sono tassativamente da escludere sul bicchiere sfaccettature e sfumature colorate. Il vetro idoneo è il cristallo o il cristallino. Alla Riedel, da qualche anno, il cristallo è stato sostituito dal cristallino, in quanto privo di piombo nei materiali della fusione.
Altro aspetto fondamentale: il cristallino non cede sapori estranei al vino, come accade, ad esempio, con i metalli e non assorbe odori. L’importante è pure lo spessore del cristallino: deve essere molto sottile in quanto il primo contatto tra vino e bocca si ha sulle labbra: uno spessore eccessivo andrebbe a togliere questo splendido attimo del primo incontro col vino.

In tavola.
Il bicchiere arreda quasi da solo la tavola. Se poi si accendono delle candele, nasce un piacevole gioco di rifrazioni che illumina il vino da dentro. Disporre i calci in ordine di servizio dei vini previsti (un pranzo importante deve prevederne almeno tre), partendo dalla destra delle posate e andando in diagonale verso sinistra o il centro del tavolo. Quello dell’acqua alla destra di tutti (a sinistra avremo il piattino del pane).

Come si lavano.
Oltre che a mano, si lavano facilmente in lavastoviglie: basta avere il cestello adatto. Anche quelli di grandi dimensioni e dal gambo molto lungo. Qualche piccolo segreto in proposito:
I. Usare detersivo liquido per lavastoviglie alla quale aggiungere un bicchiere di aceto bianco per evitare le macchie di calcare sul cristallo.
II. Appena lavati, passarli in acqua calda e poi appoggiarli rivolti all’ingiù su un panno a sgocciolare. Si asciugheranno da soli senza lasciare segni.
III. Per togliere i segni dell’acqua mai prenderli per il gambo: la minima torsione li spezzerebbe. Adagiare invece il calice sul palmo della mano sinistra (se non siete mancini) e con la destra asciugare lentamente. Anche l’eventuale lavaggio manuale va fatto con la medesima accortezza, sempre evitando di tenere il calice per il gambo.

L’equilibrio di un vino.
Scrive Ribéreau-Gayon: “Un grande vino si caratterizza per pienezza, potenza, finezza di gusto e di profumo, aroma intenso e gradevole. E’ ricco in principi sapidi e odorosi associati in concentrazioni aventi tra loro rapporti favorevoli”.
E’ l’equilibrio al quale mirano i grandi chef e i grandi vignaioli, non facile da raggiungere, in particolare nel vino, dove bisogna immaginarlo in divenire.
L’armonia dei cibi e dei vini è la medesima della musica classica: l’orchestra dei suoni in armonia tra loro. E’ l’armonia che segna la profonda differenza tra una musica banale e la grande musica; tra un vino mediocre ed un grande vino; tra un piatto raffazzonato e volgare ed uno sublime.
Raggiungere l’equilibrio richiede preparazione scientifica e tecnica, intuizione, sensibilità, curiosità, visione, coraggio di innovare, lettura attenta dell’evoluzione del gusto, cultura. Tanti aspetti positivi messi assieme che non possono che essere ad appannaggio di pochi.
Concetto dal quale, da un po’ di anni, molti, troppi produttori si sono allontanati, per produrre vini muscolosi, volgari, ricchi di alcol, nauseanti, che dopo un calice non ne bevi più.

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Ecco alcune preziose riflessioni colte durante le conversazioni con Georg Riedel.
Se il bicchiere è corretto, possiamo diventare intimi col vino, passaggio obbligatorio per amarlo completamente, per coglierne l’anima, l’essenza.
Col bicchiere giusto i quattro sapori scattano allo stesso livello uno dopo l’altro; con quello sbagliato dei componenti escono più degli altri, causando disarmonia.
I nostri gusti sono come i tasti di un pianoforte: se suonati correttamente, le note escono tra loro intonate; nel caso contrario, una nota sovrasta l’altra.
Il bicchiere è il vero direttore d’orchestra dei componenti del vino.
Come posso elevare il piacere di bere un vino? Attraverso passi e passettini.
Il primo: degustarlo alla temperatura esatta: non costa nulla!
Il secondo: decantare il vino.
Il terzo: scegliere il bicchiere giusto.

LA DEGUSTAZIONE.

La degustazione è il momento più alto per celebrare il vino. E’ come fare l’amore con la persona amata.
La degustazione ci permette di entrare nell’anima di un vino, di coglierne gli aspetti più nascosti che si svelano non appena lo si versa nel bicchiere.
La degustazione ci apre e ci introduce alla storia di quel vino: della vendemmia con tutte le sue variabili fino a chi quella vendemmia ha celebrato.
Un grande vino non è solo figlio della natura, ma anche di chi lo ha creato. Una buona uva non porta a un buon vino se non interviene l’uomo, che è il dominus, colui il quale deve interpretare, con rispetto, lo spartito che gli trasmette, anno dopo anno, Madre natura.
Certo: la degustazione non deve diventare ossessiva e solo concettuale, ma restare un momento leggero, allegro, distensivo, capace di creare emozioni, piacere e condivisone, come si usa dire (non a caso sempre più spesso si usano i social per condividere con gli amici l’emozione del vino che si è appena degustato).
Un grande vino, per essere degnamente bevuto, vuole una piacevole compagnia attorno a se. Richiede solo una corretta temperatura e il bicchiere adeguato.

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L’età.
La ricerca scientifica ci dice che – è una buna notizia – il gusto si mantiene molto efficiente in tutte le età, mentre – la notizia è meno bella – le sensazioni olfattive diminuiscono con l’età.

1. Il colore
Molto più importante di quanto si possa immaginare: da esso si traggono molti “indizi”. Nello spumante, poi, è uno dei passaggi fondamentali nella valutazione qualitativa.
I bicchieri, pertanto, debbono essere assolutamente incolori, non sfaccettati o dipinti e di cristallo.

2. Il profumo
Con Lorenzo Dante Ferro – il “naso” che crea profumi in Friuli – non ricordo più le volte che ci siamo persi in lunghe dissertazioni sul valore del profumo, nel suo laboratorio di Gradiscutta, a pochi metri dalla Trattoria Da Toni di Aldo Morassutti, tempio della cucina tradizionale friulana.
Lorenzo è un entusiasta del suo lavoro. Ti coinvolge con ampi percorsi narrativi.
Per creare i suoi profumi ha a disposizione un “libreria” di circa 3000 essenze e che lui chiama organo. Infatti afferma che il profumo è musica per il naso. E’ uno spartito.
Poi passa alla composizione – in stretto senso musicale – usando la bilancia elettronica con la quale li pesa. Pensate che ci sono profumi che hanno oltre 300 essenze diverse tra loro mescolate.
“Del profumo non se ne parla, ma è il responsabile di molte scelte della nostra vita che al profumo sono collegate”.
Come la persona che ameremo, ad esempio: di lei ci attrae, inconsapevolmente, l’odore. Al contrario, se non ci garba, rifiutiamo la sua compagnia anche fosse la più bella del mondo.
E’ proprio così: le relazioni tra le persone sono decise spesso dal naso.
“Si dice infatti, questione di pelle = questione di odore: anche in tedesco: è un sentire fisico che contagia la mente: con l’odore diventa sensazione, intuizione”.
“I Re Magi offrirono a Gesù oro, incenso e mirra: su tre doni, due erano profumi.
L’oro significa regalità.
L’incenso la divinità: Dio.
La mirra l’umanità: Dio che si è fatto uomo. La mirra – che in purezza ha colore marrone intenso e il profumo ricorda la liquirizia – si usava per i morti e per conservarne i corpi. Infatti nelle mummie egizie iniettavano nelle vene la mirra”.

Il gusto? È profumo!!!
Lorenzo: “Noi mangiamo col naso. Il cibo emoziona in quanto profumo. Capace di suscitare ricordi lontani. Il “tuo” cibo preferito, quando ne senti il profumo entrando in casa, ti mette di buon umore. Se sei lontano da casa fa scattare desideri, ricordi, piacere, nostalgia: sensazioni”.
“Il gusto è profumo: se metti l’aglio non lo vedi, ma lo senti. Se l’odore non ti piace, non mangi quel cibo”.
Lorenzo osserva che “il 60% dei profumi prodotti nel mondo è assorbito dai prodotti alimentari e dalle bevande. Il restante 40 % dall’industria dei profumi”.
Il suo lavoro creativo è molto orientato alla produzione di profumi d’ambiente. “Un buon odore mette allegria, scatena emozioni. Uno cattivo non ti fa apprezzare una bella casa, pur ricca di mobili di pregio e opere d’arte: se in quel momento la casa è intrisa di miasmi, di sentori di muffa, o di chiuso, o di fogna noi saremmo sopraffatti da questi odori sgradevoli e poco o nulla apprezzeremmo. Quando un ambiente è ben profumato, invece, fa stare meglio chi ci vive e lavora. E’ stato dimostrato che, negli ospedali, gli ammalati stanno meglio con odori positivi”.

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Ricordiamo più gli odori che le immagini?
Il profumo è la prima nostra azione dal momento che veniamo al mondo: il bambino appena nasce cosa fa? Respira e quindi annusa. Poi assaggia: beve il latte materno.
Ogni profumo produce una reazione. Di piacere se viene accettato, altrimenti la reazione di difesa del nostro cervello lo rifiuta. Automaticamente.
Nel profumo noi andiamo a valutare – ed ascoltiamo – la sua intensità, la sua qualità per poi arrivare al suo riconoscimento per similitudine con prodotti in natura (fuori, frutta, legni, animali, spezie…).
Ogni profumo ha una sua dimensione, un volume, un peso specifico: si va dai più leggeri – i floreali e fruttati – fino ai più pesanti: quelli burrosi, di cuoio, speziati, di terra, di animali.
I profumi si dispongono sopra il vino versato nel bicchiere come i corridoi aerei: come si scende o si sale tra questi livelli si vanno ad intersecare ed annusare i vari componenti, distribuiti a strati.
Dal 2006 il New York Times, primo quotidiano al mondo, ha aperto la rubrica sull’olfatto, o meglio sui profumi: da allora i profumi hanno le stelle come i vini e i ristoranti. Il critico “olfattivo” era, allora, il giornalista Chandler Burr.
Le grandi aziende mondiali hanno applicato – per vendere di più – il marketing dell’olfatto. Come la Sony che per tenere inchiodati i clienti al bancone delle sue numerose boutique nel mondo – nel 2006, quando dettero il via questa nuova strategia di vendita, erano 36 – diffondeva nei suoi negozi un aroma di vaniglia e mandarino. Chi scrive visitò allora il negozio di New York in Madison Avenue. L’effluvio ti avvolgeva delicatamente non appena varcavo la porta.
Samsung, gigante coreano dell’elettronica e concorrente diretto della Sony, ha seguito la medesima strada. Il risultato è che i clienti stanno di più in negozio, più volentieri.
Fino ad oggi eravamo abituati a scegliere quello che comperavamo guardando, toccando e, a volte, assaggiando. Ora lo faremo anche “annusando”. “E’ un modo, dicono gli esperti di marketing, per imprimere il marchio di un’azienda, il suo brand nella memoria del consumatore: non più solo come logo, ma anche come un’esperienza olfattiva”.
L’idea di influenzare i comportamenti attraverso stimoli olfattivi è vecchia di migliaia di anni: Babilonia, l’antico Egitto, l’India. I pionieri moderni sono stati i casinò di Las Vegas che, già a partire dal 1996 circa, hanno iniziato a creare il loro aroma del “tavolo verde”. Bloomingdale’s, sempre a New York, diffonde aromi diversi nei diversi reparti: talco nell’area neonati, cocco dove si vende abbigliamento per il mare.
L’olfatto è l’unico, tra i cinque sensi, che va direttamente al cervello, senza intermediari. L’odore è rapido come una scarica elettrica”. (Jim Twitchell, prof Università della Florida e autore di “Branded Nation: Selling Culture in America”).
Nel 2004 il Nobel per la medicina andò a Richard Axel e Linda Buck per le loro scoperte genetiche sui ricettori dell’olfatto.
La ricerca è ormai convinta che l’essere umano sia capace di individuare e catalogare ben 10 mila odori differenti, ma soprattutto – ed è ciò che interessa maggiormente alle imprese – la gente sembra ricordare più gli odori che le immagini.
Tra poco scopriremo che la sensibilità dell’olfatto è di 10.000 volte superiore rispetto al gusto. N
on basta: vedremo che “L’olfatto partecipa all’impressione del gusto: sono le sensazioni “olfattivo-gustative”.
In realtà quando diciamo di “gustare” cibi e bevande, la gran parte degli stimoli sono di origine olfattiva.
L’immagine di un odore è del tutto specifica.
Va ancora osservato che la parte olfattiva è la fase più complessa della degustazione ed anche, come visto, la più importante. Scrivono Richard Pfister, Christian Guyot e Daniel Andre nella Nuova classificazione degli odori mediante la metodica dell’olfatto adottata nell’industria dei profumi: “La grande variabilità interindividuale delle descrizioni olfattive non è solamente dovuta al modo in cui ogni soggetto esprime le sue percezioni olfattive (che dipende dal vissuto, dal vocabolario, dal metodo di descrizione, dall’addestramento, dall’ambiente e dalla personalità), ma anche al proprio strumento olfattivo. In effetti la fisiologia dell’olfatto è unica per ogni individuo… Alle differenze fisiologiche interindividuali, va ad aggiungersi l’azione dei diversi parametri che influenzano l’informazione olfattiva trasmessa dai recettori ed il suo trattamento da parte del cervello. In effetti gli influssi risultanti dagli stimoli olfattivi transitano attraverso un gran numero di aree cerebrali che tra l’altro sono spesso legate alle emozioni. Si può citare ad esempio l’amigdala, che gestisce la sensazione di paura; il talamo, legato alle aree corticali del gusto (cosa che spiega perché sia tanto facile associare un odore a un sapore, come per esempio l’odore di limone all’acidità); l’ippocampo, che partecipa alla creazione del ricordo; l’ipotalamo, che controlla l’insieme delle secrezioni ormonali ed i comportamenti vitali come la fame, la sete, la riproduzione, il ciclo veglia-sonno e la frequenza cardiaca”.
“Oltre ai legami citati, l’olfatto è anche fortemente legato alla vista. I centri di percezione dell’odore attivano una parte della corteccia visiva primaria che interviene nel trattamento delle immagini visive, nell’identificazione degli oggetti e nella costruzione d’immagini mentali. In realtà, a livello dell’immagine di un odore nel cervello e per uno stesso prodotto, c’è il 17 % di caratteri comuni percepiti da tutti. Dunque l’odore dipende dal 17 % dal prodotto e per il resto dall’individuo (per un soggetto non addestrato). Pertanto l’immagine di un odore è del tutto specifica”.

Il bicchiere e l’aerosol di profumi.
Tornando al bicchiere. Incidono sull’ascolto del profumo il volume del calice, la sua forma e la quantità di vino versato. A tal proposito, il bicchiere deve essere riempito per 1/3 della sua capacità: così più sarà grande e più vino bisognerà versare.
Tutto è legato alla percezione delle sostanze odorose del vino stesso. La forma deve tener conto della tipologia dei profumi e del loro peso: se avremo vini dai profumi leggeri – come quelli floreali e fruttati che tendono a liberarsi facilmente – dovremo avere un calice che li racchiude e li preserva; se viceversa avremo profumi pesanti, di quelli che stanno appena sopra il livello del vino, dovremo avere – come i bianchi affinati in legno – un calice ampio che ci permette di andare con le narici quasi a contatto col vino stesso.

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Roteare il calice.
L’esame olfattivo è esclusivamente inspiratorio (la fiutata espiratoria è gustativa!) e serve ad individuare le sostanze volatili odorose emesse dal vino e che sono il suo aroma ed il suo bouquet.
Roteando il bicchiere – con pacatezza, please!!! – il vino sale a strati sottili sulle pareti del calice e, per il duplice effetto dell’aumento della superficie libera del vino e dell’agitazione a cui è sottoposto, si satura di una sottile nebbia profumata che provoca la diffusione ottimale di sostanze volatili odorose nello spazio libero del bicchiere stesso. Annusando in tale spazio, mediante una serie d’inspirazioni rapide e discontinue, il degustatore fa transitare nelle fosse nasali una frazione di quell’atmosfera impregnata di sostanze volatili.
Agitando il vino si va a provocare un aumento dell’intensità dei profumi, ma non della sua qualità che – va da sé – resta inalterata. Inoltre la superficie del vino a contatto con l’aria aumenta di circa 3 volte, in quanto da piana si fa conica, col risultato che il tono = intensità si amplia: un po’ come aumentare il volume della musica.
I profumi sono, in effetti, dei vapori esalati che fluttuano al di sopra del vino e riempiono la parte vuota del bicchiere, come una leggera nebbia invisibile. Sono più densi quando il vino è agitato e l’imboccatura del bicchiere è ristretta; mentre sono più diluiti in un bicchiere a imboccatura allargata. Una forte agitazione della superficie forma un’emulsione di particelle di liquido con l’aria, una sorta di aerosol, quindi una superficie effettiva di evaporazione piuttosto notevole.
Va aggiunto che sono ben poche le sostanze volatili che lasciano la superficie del vino a riposo e la loro diffusione nell’aria è lenta. Per questo, il gesto di applicare una narice sul collo della bottiglia stappata per annusare il vino – oltre che sconveniente – è inefficace.
Se versiamo solo un po’ di vino sul fondo del bicchiere, il suo odore non avrà la stessa intensità, né la stessa composizione rispetto a un bicchiere quasi pieno. In tal caso il naso respira aria esterna. Provassimo a riempire quattro bicchieri identici con quantità diverse di vino – 20, 50, 100 e 200 mml – l’odore e la finezza aumenterebbero fino a 100 mml. Al di spora non si può agitare senza che il vino trabocchi e il naso respirerebbe aria.
Ci sono tre modi per accostarsi ai profumi del vino: i cosiddetti tre colpi di naso.
Il primo consiste nell’odorare il vino a riposo, quindi senza agitarlo. Si espira l’aria dai polmoni, si annusa inspirando lentamente l’atmosfera sopra il vino. L’odore percepito è tenue un quanto si afferra solo la parte che si diffonde maggiormente.
Il secondo metodo consiste di annusare immediatamente dopo aver agitato il vino, al fine di aumentare la superficie di contatto con l’aria e, di conseguenza, di evaporazioni odorose.
Il terzo serve soprattutto per verificare dei sospetti, dei dubbi sulla franchezza dell’odore e “ingrandirne” le sensazioni. L’agitazione del bicchiere deve farsi vivace, a scosse irregolari, per spezzare il vino ed emulsionarlo (anche se con il rischio di gettarne fuori). Per fare questo controllo, si può anche chiudere il calice con il palmo della mano e agitare forte il vino. Poi aprire ed annusare immediatamente.
Personalmente uso il primo ed il secondo, uno di seguito all’altro.
Un piccolo segreto è annusare gli odori che escono dal bicchiere immediatamente dopo averlo svuotato. Avviene una sorta di “distillazione” dei profumi. I grandi vini, anche a calice vuoto, si fanno ancora sentire, mentre molti altri non lasciano alcun residuo aromatico. Ricordo ancora un indimenticabile molto vecchio Chateau d’Yquem. Chiesi di portare con me il calice nel quale lo avevo bevuto. Lo coprii con una pellicola il domopack. La prima cosa che facevo al mattino, ogni santo giorno, toglievo la carta e l’annusavo. Mi emozionavo e richiudevo. Finché mia madre, pensando fossi ammattito, lo lavò. Fu una delle poche volte che mi arrabbiai con lei e ancora me ne dolgo.
Riflessione.
Chi non dà ascolto a lungo e con attenzione alla parte olfattiva, perde gran parte delle emozioni che sa dare un vino. Nulla può, infatti, ragguagliare meglio del nostro naso sulla finezza, la classe, l’età di un vino.
La temperatura. Influisce sulla percezione degli aromi che oltre i 18 °C scappano via, si dileguano in quanto evaporano. Si può dire che gli aromi e i bouquet appaiono esaltati a 18 °C, attenuati a 12 °C e quasi neutralizzati a 8 °C. Eccezion fatta per gli spumanti per i quali, seppure bevuto a temperature più basse (4 °C), i profumi si sentono, trascinati dallo sviluppo delle bollicine.
Le diverse sensazioni tra l’aroma percepito dalla bocca e quello per via diretta, tra l’aroma interno e quello esterno – entrambi costituiti approssimativamente dalle stesse sostanze volatili – dipendono, pertanto, anche dalle differenze di temperature. Ecco perché si tiene il vino in bocca per il tempo necessario alla liberazione delle sostanze odorose, che saranno poi percepite dall’olfatto. Infatti: un vino bianco che ha una temperatura di 10 °C, tenuto in bocca per dieci secondi, passa a 25 °C.
La decantazione.
Per valutare l’importanza – e l’effetto – della decantazione sul vino, fate una prova: usando gli stessi bicchieri, decantate metà bottiglia. Servite la metà che resta direttamente dai bicchieri. Poi assaggiate e traete le vs conclusioni. Troverete che il vino decantato è più armonico, più completo e complesso. Insomma: migliore.
La tecnica della decantazione viene applicata ogni qual volta si renda necessaria ed opportuna e non in relazione al colore bianco o rosso.
E’ necessaria:

E’ opportuna:

L’uso del decanter non deve essere fatto quando il vino sia molto vecchio. In tal caso un doppio travaso (dalla bottiglia al decanter e poi nel bicchiere) può arrecare più danni che vantaggi, perché il vino è fragile e può “rompersi”. Per questi è consigliabile – disponendo di bicchieri corretti – far passare, con cautela, il vino dalla bottiglia direttamente nei bicchieri che fungono, a loro volta, da decanter.
Come si decanta.
E’ corretto versare il vino nel decanter con cautela, facendolo scorrere sulle pareti se presenta dei depositi; si versa “a rimbalzo”, nel caso sia necessari arieggiamento, ossigenazione e pulizia. Deve aver la capacità adeguata rispetto al contenuto della bottiglia: è necessario usare il “doppio” decanter per i magnum o per quando si vuole arieggiare in modo rapido. Bisogna ricordare che anche la forma diventa importante: per i vini bianchi o rossi delicati che abbiano bisogno solo di eliminare sedimenti, serve una forma a bottiglia o comunque dal collo stretto e di non grande capacità, onde evitare il contatto con troppo ossigeno. Al contrario, se abbiamo vini dove l’ossigenazione è consigliata, potremo usare formati di capacità maggiori e con l’imboccatura più ampia.
Aprire la bottiglia ore prima del servizio non va bene. Una volta, leggenda metropolitana, narravano che l’apertura doveva essere fatta in anticipo un ora per ogni anno di invecchiamento del vino!!! Bisogna ascoltare tutti i passaggi della musica del vino: dall’overture alla fine.

3. Il gusto.
Il gusto del vino è in gran parte il risultato di un equilibrio tra gusti dolci o zuccherini e sapori acidi e amari. La qualità è sempre in rapporto con una certa armonia di questi gusti: uno non deve dominare l’altro. Questo è vero sia per vini bianchi morbidi e liquorosi sia per quelli che contengono residui di zuccheri naturali; lo è anche per i vini bianchi secchi e per i vini rossi che non contengono zuccheri.
Nella nostra bocca c’è un esercito di difensori che ha il compito di intercettare i “nemici” – liquidi o solidi – che possono creare danno al nostro copro. Se metti in bocca un’oliva cruda, la segnalazione del terribile amaro viene trasmessa alla velocità di 400 m al secondo. Mentre se è dolce, lo tieni in bocca con piacere. Così vale per le bevande bollenti. I nostri defender ci segnalano: attento, che se ingerisci questo latte bollente, ti bruci.
I bicchieri Riedel spostano il punto di difesa, in quanto spostano il punto di attacco sulla lingua. Più piccolo è il diametro del calice e più si sposta indietro il punto di attacco e quindi di difesa.
L’assetto del vino non cambia, è la percezione che cambia!
Anche sommando le sensazioni date dalla temperatura+ bicchiere, l’assetto non si modicica, ma la sua percezione sì.
Tutte le papille “leggono” le sensazioni dei 4 gusti, mentre solo in certi punti si registrano le sensazioni di intensità.
La sensibilità del gusto è di 10.000 volte inferiore rispetto all’olfatto.
L’assaggio gustativo in senso stretto è dato dalla lingua che consente di riconoscere i 4 gusti elementari. La prima sensazione percepita, se presente, è il dolce; seguita dal salato, dall’acido, dall’amaro e dall’umami. Gli altri gusti non sono che delle interferenze sui gusti elementari: ad esempio il gusto insipido risulta dalla sovrapposizione dei gusti salato e dolce.
Queste le aree di maggior sensibilità ai quattro gusti elementari:
– il dolce è percepito principalmente sulla punta;
– il salato ai lati della punta;
– l’acido è identificato dalla parte media della lingua e lungo i margini laterali;
– l’amaro dalla parte posteriore;
– l’umami alla base della lingua stessa.
Contrariamente a quanto creduto per lungo tempo, non esistono cellule veramente specializzate nel riconoscere questo o quel sapore, ma si riscontra una sorta di puzzle sensoriale che viene decifrato dal nostro computer di bordo, il cervello.
La sensazione proveniente dagli stimoli passa attraverso queste cellule sensoriali – da 7 fino a 10 milioni – disposte dai 7.000 ai 10.000 bottoni gustativi e che formano solo qualche centinaio di papille gustative, particolarmente abbondanti sulla lingua, ma che si trovano anche sulle pareti della bocca, sulla volta palatina, sull’epiglottide e anche sulla parte alta della faringe.
Oltre ai 4 gusti elementari, nel 1911 venne individuato l’umami; recentemente, come vedremo, anche il sapore “grasso” ed il sapore “liquirizia”.
Non basta: oltre alle sensazioni vere, esistono, nel contempo, diverse sensazioni dette somestesiche (dal latino soma, che significa corpo e aisthesis, sensazione) percepite dalla pelle, dai muscoli, dalla articolazioni: posizioni del corpo, temperature, pungente, durezza… “Mettendo insieme i diversi termini citati nel corso dei secoli, scrivono Peynaud e Blouin, se ne ottengono circa quaranta, tra cui i comuni gusti elementari”.

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I GUSTI ELEMENTARI.
Dolce.
A parte i vini dolci che hanno dei residui zuccherini naturali, l’elemento “dolcificante” più importante in un vino secco è l’alcol, ossia l’etanolo. Una soluzione zuccherina a 20g/l di saccarosio sembra nettamente più dolce in presenza di 4% di alcol. Tale fenomeno è essenziale nell’equilibrio gustativo di tutti i vini, anche e soprattutto senza zuccheri “veri”, e spiega ampiamente le difficoltà nel produrre vini senza alcol, i cui sapori acido e amaro risaltano molto.
Inoltre c’è il glicerolo – prodotto dalla fermentazione alcolica – che dà dolcezza (ricordate lo scandalo del glicerolo per arrotondare i vini austriaci?)
Salato.
Il modello classico è il sale da cucina – cloruro di sodio – sapore che viene raramente percepito nei vini così com’è, eccezion fatta per vini poco acidi. Interviene, invece, come modificatore-attivatore del gusto, come succede in cucina: contribuisce nettamente ad attenuare l’amaro e l’astringenza, facendo risaltare il sapore dolce. (In Giappone mettono le mele a bagno nell’acqua salata per aumentarne il fruttato). I vini contengono, sotto forma di anioni e cationi, l’equivalente di due fino a quattro sostanze del sapore salato (potassio, calcio, magnesio; solfato, cloruro, solfito, fosfato). Va osservato che il sale (cloruro di sodio) svolge la funzione solamente in piccole quantità (qualche mg per litro).
Luca Gardini, sommelier e scrittore, amplia la definizione di salato, nella cui categoria inserisce anche il concetto anomalo di mineralità. Poi osserva che “La salinità può essere avvertita come marina o fresca. Il primo caso si verifica quando la sensazione salina del vino ricorda le suggestioni che possiamo avere in riva al mare, mentre nel secondo caso la “sapidità fresca” fa riferimento alle sensazioni mentolate e balsamiche”.
Acido.
Tra le bevande comuni, il vino è quella più acida: pensate che contiene circa un centinaio di sostanze acide
, alcune delle quali provengono dall’uva (come il tartarico, malico, citrico) o dalle fermentazioni (lattico, succinico, acetico).
– L’acido malico evoca i frutti verdi, il carattere acerbo come nelle mele verdi.
– L’acido tartarico è duro.
– L’acido citrico risulta fresco, leggermente fruttato come nei limoni e negli agrumi.
– L’acido lattico appare acidulo come lo yogurt. E’ il più morbido degli acidi organici
– L’acido succinico è complesso, un po’ salato, amaro, contribuisce a dare un carattere comune d’insieme delle bevande fermentate.
– L’acido acetico è duro, pungente, acre, come nell’aceto di alcol.
Amaro.
La sensibilità all’amaro varia molto a secondo degli individui ed è in genere percepita come spiacevole, se non pericolosa (forse in quanto molte sostanze naturali tossiche sono amare).
Nel vino deriva dai tannini che sono estratti attraverso la macerazione. La sensazione amara è mascherata dal sapore dolce, attenuata dal sale e aumentata dall’alcol. Va anche detto che i sapori amari e acidi creano una sensazione di aumento delle due sensazioni, rendendo i vini duri ed imbevibili. Infatti, dopo la malolattica, i vini sono più morbidi. I vini si ammorbidiscono anche per la “maturazione dei tannini”: la loro polimerizzazione, l’unione con le proteine e soprattutto il legame con gli antociani attraverso l’ossigenazione. Per questo motivo si procede ad effettuare una mirata microssigenazione con dosi stechiometriche di ossigeno/tempo/volume.

Un passo nella storia
Nella comprensione dei tannini la grande svolta arrivò grazie alla scuola di Bordeaux, che ci svelò – grazie ai lavori del prof. Glory – che esistevano almeno due tipi di tannini: quelli definiti dolci, che si estraevano per primi, cui seguivano quelli amari, che bisognava evitare, pena la loro presenza per tutta la vita del vino. I primi tannini estratti, infatti, sono quelli della buccia, mentre quelli più amari ed acidi provengono dai vinaccioli, estratti dall’alcool che aumenta gradualmente con la fermentazione alcoolica. Per questo motivo nella produzione dei vini rossi si estraggono i vinaccioli dal terzo-quarto giorno d’avvio fermentazione. Ciò accade soprattutto nelle annate meno favorevoli, quando la maturazione fenolica non è completa. Certo, poi la ricerca andò avanti, ma quello fu il punto di svolta nella vinificazione che poi ci portò, nella degustazione, a porre attenzione ai vari tannini percepiti. Collegata ai tannini prima ancora ci fu quella che possiamo definire la madre di tutte le rivoluzioni enologiche moderne dei vini rossi in Italia che, a leggerla oggi, fa sorridere, ma allora c’era da piangere.
Siamo nel 1970. Il Chianti classico – e non solo – era in crisi piena. Piero Antinori era alla guida dell’azienda di famiglia dal 1966. Così ricorda quel momento storico: “Occorreva “un’invenzione del vino” che forse in Toscana non si era mai tentata. Occorreva un salto ulteriore, ci dicevamo, discutendo per giorni e notti insieme a Giacomo Tachis. Fu grazie a lui che ebbi la fortuna di incontrare il professor Emile Péynaud, uno dei pochi giganti del vino dell’ultimo mezzo secolo. Fu lui a insegnare a tutti noi come avviare e controllare la fermentazione malolattica. Ci aiutò a formulare una diversa filosofia per il vino. I suoi insegnamenti erano, anzitutto, una lista di divieti. Per fare un rosso di qualità non si possono usare grosse percentuali di uve bianche. Né si può rinchiuderlo per tre-quattro anni in botti troppo grandi di castagno. Né si possono usare sempre le tesse botti”.
Era il protocollo da cui nacque Il Tignanello 1971, vino spartiacque dei rossi italiani. Vino che permise a noi, giovani sommelier di allora, di descrivere un vino rosso italiano con aggettivi mai prima usati. Questo vino si esprimeva con eleganza e morbidezza. Era importante, ma allo stesso tempo si beveva con gioia. I suoi profumi fruttati erano coinvolgenti, il colore intenso, vivace e profondo. Tannini sostenuti, ma accondiscendenti. Il Tignanello fu il vino rosso al quale poi tutti s’ispirarono e che ci obbligò a creare, con somma felicità, un nuovo linguaggio per raccontarlo. Linguaggio che via via ha aggiunto nuove interpretazioni. Tra esse, sempre interessanti quelle di Luca Gardini: “I tannini possono essere acidi, polverosi o salati… Acido è il tannino che asciuga il palato ma al tempo stesso lo fa salivare. Nobile e delicato quello polveroso, visto che individua una sensazione “powdery” simile ad un leggero velo di borotalco. Infine è salato (quello) che comunica al palato una sensazione di asciuttezza associata a sapidità, un po’ quello che accade quando assaggiamo un chicco di sale”.

Interferenza ed equilibrio dei sapori.
I gusti dolci ed i gusti amari o ancora gusti dolci e gusti salati si mascherano in maniera reciproca. Sono fenomeni d’interferenza, di concorrenza o di compensazione.
Questi gusti si attenuano a vicenda, ma tuttavia non arriverebbero ad annullarsi l’un l’altro e a produrre una soluzione insapore dall’unione di due sostanze sapide. Si ritrovano vicini, simultaneamente e un po’ ridotti.
Se si acidifica una soluzione dolce, si diminuisce l’impressione dolce che essa dà; d’altro canto se si zucchera una soluzione acida, si attenua l’impressione acida. Tuttavia si distinguono sia il dolce sia l’acido e si può portare l’attenzione, di volta in volta, su ciascuno di questi.
Si zucchera il tè e caffè per compensare i gusti amari; si zuccherano le fragole, la macedonia di frutta o il succo di limone per renderne sopportabile l’acidità.
In presenza di zucchero, l’amaro continua ad essere percepito, ma la sensazione di insieme non è più sgradevole. Del resto l’amaro dà gusto a una soluzione dolce. L’effetto dello zucchero è lo stesso sull’astringenza del tannino. La sua presenza ritarda il momento in cui cominciano a comparire i gusti amari e astringenti e ciò quanto più esso è concentrato.
Al contrario l’alcol, lontano dal correggere l’astringenza, ne accentua piuttosto il finale sgradevole. Numerosi vini rossi moderni, molto tannici, molto alcolici, hanno adesso alcuni grammi di zuccheri residui, non direttamente identificabili, ma che apportano un po’ di dolcezza al vino.
Il gusto dolce è veramente l’unico in grado di procurarci una sensazione gradevole, che noi cerchiamo. Infatti noi amiamo, fin dalla nascita, ciò che è dolce, vellutato, zuccherino, spesso senza rendercene conto: si è parlato dello zucchero come “droga dolce”. Accettiamo altri sapori nella misura in cui sono lievi o attenuati dal gusto dolce; tuttavia questi gusti sono indispensabili per dare volume gustativo a un composto e noi apprezziamo maggiormente un insieme in cui siano riuniti i gusti salati, acidi e amari, bilanciati da un sapore dolce ben calibrato. A confronto, la soluzione dolce sembra insipida e senza fascino. Amiamo la complessità dei sapori, dove il gusto dolce ci protegge da un eccesso di acidità e amaro.
Quanto al sale, è un modo per far risaltare la piattezza dolciastra dello zucchero.
Effetto di sommatoria dei sapori sgradevoli.

– L’amaro e l’astringenza rinforzano l’acidità e la rendono eccessiva;
– l’acidità copre dapprima l’amaro, ma ne accentua la percezione nel retrogusto;
– l’astringenza è sempre accentuata dall’acidità;
– il salato non fa altro che mettere in risalto gli eccessi di acidità, amaro e astringenza. Questa proprietà si manifesta ugualmente in un altro modo. Nel corso di degustazioni prolungate, più si assaggiano le stesse soluzioni acide e amare, o che presentano i due sapori insieme, più il tempo di latenza si accorcia e questi sapori risultano più aggressivi.
Queste nozioni di equilibrio dei sapori, fondamentali per spiegare il gusto dei vini, si applicano a tutti gli altri alimenti e bevande e si possono rappresentare in maniera schematica con le formule seguenti, dove il segno = significa equilibrio:
gusto dolce = gusto acido
gusto dolce = gusto amaro
gusto dolce = gusto acidi + gusto amaro.

Il sale non è un additivo migliorante. Un’aggiunta di sale, a partire dalla dose che modifica la sapidità, rafforza sempre la durezza e l’asprezza.

La saliva.
Quando si assaggia, non si percepisce l’acidità del vino, ma il miscuglio di vino-saliva, molto meno acido. La produzione quantitativa di saliva varia a seconda degli individui, dello stato psicologico, dei cibi e delle bevande di accompagnamento (il flusso salivare varia da circa 0,1 a 1,5 millilitri al minuto, rispetto ai pochi millilitri di vino messi in bocca per assaggiare). In tutti i casi, il pH orale – che oscilla tra i 6,5 e 7,4 e quindi vicino alla neutralità – è superiore a quello del vino per un valore che va da +0,2 a + 0,9 unità. Variazioni notevolissime, quindi, che spiegano o le differenze di percezione dell’acido secondo gli individui e le circostanze.

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GLI ALTRI GUSTI.

Umami.
Definito da Ikeda, in Giappone, nel 1911 (in giapponese significa delizioso), è frequente non solo nell’alimentazione asiatica (zuppa di alghe) ma anche nella nostra: di fatto è la prima sensazione che conosciamo come lattanti, in quanto il latte materno è ricco di aminoacido da cui prende origine il glutammato monopodico (il dado da brodo), largamente usato come esaltatore di sapidità in numerosi piatti occidentali cucinati industrialmente. Presente anche in molti formaggi stagionati come il Parmigiano reggiano, il Grana padano, il Montasio stravecchio, oltre che nella noce, nel broccolo e nei pomodori, asparagi, uve. Anche, ed in particolare, nei frutti di mare e nei pesci come le salse di acciughe. Il suo ruolo nel vino è poco conosciuto. Definito anche “quinto gusto”, in quanto indipendente dagli altri, i suoi recettori si trovano nella lingua, nella zona del retrobocca e lo si rileva prima della deglutizione.
Grasso” o Oleogustus.
Non ha nulla a che fare con la sensazione e con il termine “grasso” che, nel linguaggio dei vini, esprime la dolcezza, la morbidezza, la rotondità. L’oleogustus è presente quando si ha la tipica sensazione oliacea che lascia in bocca gli acidi grassi. Non si tratta, però, di una sensazione piacevole, che può lasciare un tocco di un dolce con tanto di burro. No: ad alte concentrazioni il sapore degli acidi grassi è terribile, come spiega l’autore della ricerca Richard, D. Mattes, docente di Scienze della nutrizione alla Purdue University degli Stati Uniti, pubblicata sulla rivista Chemical Senses. (Caterina e Giorgio Calabrese. Sette/Corriere della Sera 11.09.2015). Va detto che nei vini il contenuto di acidi grassi è limitato, non si arriva mai ad alte concentrazioni.
Liquirizia.
E’ rappresentato dall’acido glicirrizico, presente nella liquirizia. Il suo ruolo è attualmente sconosciuto nei vini, sebbene alcuni presentino un odore di liquirizia.
Astringenza.
Si manifesta con una sensazione di secchezza, di durezza e ruvidità, di assenza di lubrificazione della cavità orale. Nei vini proviene dai tannini che reagiscono con le proteine della bocca e la saliva. Una simile sensazione si ha con la masticazione di legno secco, o di un bastoncino di liquirizia, o il caco non maturo. I tannini dei vini derivanti dai raspi e vinaccioli sono più ruvidi, più astringenti rispetto a quelli provenienti dalle bucce, che sono invece più polposi, più “grassi” e “dolci” ma, in caso di insufficiente maturazione, possono essere erbacei.
La degustazione è l’unica in grado di precisare la qualità dei tannini, allo stesso tempo indispensabili e pericolosi in caso di eccesso, di assenza o di strutture inadatte alle altre componenti. Ecco perché la macerazione dei rossi va seguita con particolare attenzione. Se i tannini amari “scappano di mano, essi resteranno nel vino per sempre.
La sensazione di astringenza – che si può avvicinare a quella di metallico – è cumulativa in caso di degustazioni successive.
I quattro sapori elementari (dolce, salato, acido, amaro), assieme all’astringenza, costituiscono sempre la trama, lo scheletro di tutti i vini, ma sono gli altri sapori che vengono ad affinare questa struttura un po’ sommaria, definendone i dettagli.
Consistenza.
Fondamentale nei solidi, tant’è che i cuochi più bravi danno molto importanza ai piatti dove interagiscono più consistenze. Idem nei dolci.
Nei vini si manifesta con i termini viscoso, liscio, rugoso; più frequentemente con duro, molle, secco. Risultato di un delicato equilibrio tra i sapori dolci, salati, acidi e amari. Anche pesante e leggero esprimono un’idea di concentrazione più o meno forte, di ricchezza.
Aggressività.
Pungente, bruciante, piccante, penetrante, doloroso sono tipiche sensazioni somestesiche, percepite non dalle papille sensoriali, ma da tutte le mucose orali, intestinali, nasali e dalla pelle. Come il bruciante e piccante della capsaicina, presente nei peperoncini.
I sapori “edonistici”.
I termini di “insipido”, “sapore sgradevole” non sono sapori, ma giudizi di valore. Poiché compaiono in (quasi) tutte le descrizioni, essi rappresentano, con tutta probabilità, una reazione profonda del nostro cervello.
Il gusto si completa in diverse fasi:

Bisogna ricordare che la forma del calice determina una diversa velocità di entrata del vino sulla lingua e quindi il primo contatto con le papille. Se tale contatto è corretto, il vino sarà armonico. In caso contrario, i tre gusti andranno uno per proprio conto, creando disarmonia.
Un po’ come l’impianto elettrico. Se è fatto bene, tocchiamo l’interruttore e le luci s’accendono. Se sbagliato, tutto va in corto circuito.

Per cui quando il bicchiere mette in risalto uno dei componenti del vino, vuol dire che spiazza gli altri, creando in tal modo squilibro e disarmonia tra loro.
Bisogna evitare di sentire gli estremi del vino che, invece, devono essere tra loro sempre in armonia.

A) La sensazione tattile
Cambiando la forma del calice, spostiamo il peso tattile del vino, che “pesa” non solo sulla lingua, ma anche sulle labbra, sulle gengive, sui denti.
Il peso del vino è la sensazione dove senti la maggior concentrazione dei sapori.

La sensazione tattile – la prima alla quale diamo ascolto – è la fase forse meno conosciuta del gusto. Essa misura la struttura, il corpo e la temperatura del vino. E’ percepita dall’insieme degli organi della bocca: labbra, lingua, palato, gengive. Consente di valutare la consistenza o plasticità d’un alimento, il grado di fluidità o di viscosità d’una bevanda e di ottenere, da certi vini, delle sensazioni generatrici d’immagini evocanti un rilievo o delle forme modulate nello spazio da più dimensioni.
Nella fase tattilo-gustativa è importante porre attenzione ai punti dove si percepisce la maggior concentrazione dei sapori: ovvero individuare il “peso” del vino. Importante in quanto ci permetterà, cambiando il calice, di individuarne gli spostamenti e le disarmonie provocate proprio dal bicchiere sbagliato.
Ossia potremo cogliere le sbavature all’armonia del vino, giudice supremo della sua qualità.
Sensazioni tattili importanti sono la CO2 degli spumanti, la temperatura e la viscosità.
Il gusto termico consente di apprezzare in una certa misura il caldo e il freddo; gli organi della bocca particolarmente sensibili sono la lingua, la cui punta rivela un massimo di sensibilità, e le lebbra.
Influenza delle temperature. Le papille sono molto sensibili e ne percepiscono le differenze minime. Come siamo sensibili alle false temperature: effetto rinfrescate della menta o riscaldante dell’alcol.
Nell’atto del bere, la sensazione del liquido freddo e del liquido caldo è data dalla sensibilità termica che fa parte del senso tattile. Riguarda soprattutto le labbra nel loro spessore, la punta della lingua, che sono le aree toccate per prima durante l’ingestione. Come detto le labbra hanno la funzione di sentinelle in prima linea, di organi di allarme e sono incaricate di evitare contatti dolorosi alle mucose della bocca, le parti della faringe e dell’esofago. La sensibilità delle labbra è stupefacente: è possibile distinguere una differenza termica tra due vini dell’ordine di un solo grado, almeno per la gamma dai 10 ai 20° C, che è quella che interessa la degustazione. (Altri esempi: la mamma che ente la febbre del bambino appoggiando le labbra sulla sua fronte; lo chef che appoggia sulle labbra la sonda per verificare la temperature al cuore del cibo che cucina).
Si possono confrontare dei vini solo se sono alla stessa temperatura. E – va da sé – nello stesso bicchiere.
L’orlo del bicchiere (a contatto con le labbra) deve essere sottile. L’orlo arrotondato impedisce un afflusso scorrevole del vino e tende ad accentuare l’acidità e la durezza. Di fatto – senza un orlo sottile e non arrotondato, il vino non viene “guidato” in bocca, ma vi entra in maniera disordinata.
(Ottenere un orlo sottile è uno dei motivi della scelta del cristallo o del mezzo cristallo per la produzione dei bicchieri da vino). L’impressione di spessore influisce su quello che beviamo. In un raffronto di uno stesso vino versato in due bicchieri della medesima forma, ma di spessore diverso, quello dal bordo più sottile sarà migliore. Vale anche per il caffè o il the con le tazzine del bar o di bone china.
La prova? Semplice: fate un the o un caffè. Una metà la mettete in una tazza da cappuccino da bar con l’orlo rotondo e l’altra metà in una tazza bone china, con l’orlo sottile: berrete due the o caffè diversi. I migliori sono quelli dove l’orlo è sottile.
(Va detto che al bar sarebbe impossibile usare le tazzine dall’orlo sottile che causerebbero altissime sbeccature dell’orlo).

B) La combinazione tra gusto e olfatto è chiamata sapore
Il sapore sottolinea il profumo e il profumo) rafforza il sapore” (Emile Peynaud, Jaques Blouin)
L’olfatto partecipa all’impressione del gusto: sono le sensazioni “olfatto-gustative”. (Peynaud).
1. Le sensazioni che si colgono per via retronasale, attraverso l’espirazione, sono di grandissima importanza. Qui il vino si ingrandisce, si fa vedere e sentire in tutti in suoi particolari. Per capirne l’importanza, basta provare a chiudere il naso mentre si assaggia: il vino si accorcia, perde personalità, profumi e sapori allo stesso tempo.
Ciò è dovuto al fatto che le sostanze odorose prendono parte anche alle impressioni di sapidità, di corpo, di grasso. Se si tolgono tutti i componenti odorosi di un vino, trattandolo con un solvente – come avviene quando si ha un forte raffreddore – esso ne risulta allo stesso tempo molto smagrito, anche se si è di poco modificato il suo equilibrio analitico fondamentale.
Dopo averlo deglutito o espulso, il vino rivela nuovi odori percepiti dalle vie retronasali, vale a dire delle molecole odorose passate dalla bocca al naso. Si percepisce la sua persistenza, la sua durata in bocca, l’equilibrio tra sapori ed odori. Così come il silenzio successivo alla musica di Mozart è ancora Mozart, il vino, una volta scomparso, è ancora presente, per alcuni secondi. In dieci-venti secondi di totale attenzione, ogni assaggiatore ha analizzato il suo vino; lo ha compreso, lo può valutare, lo assapora (o lo rifiuta).
Degustare di nuovo satura le papille e non rimedia di certo ad una mancanza di attenzione!

2. Esempi di casi di squilibrio tra sapore e odore: l’insufficiente acidità di un vino ne spegne la freschezza dell’aroma; una dolcezza esagerata senza aroma fruttato fa sembrare un vino dolce, ma smorto. Se predomina l’effetto legno diventa caricaturale; se esso resta discreto e sta “sotto” il vino (come il sale nella minestra), ne aumenta solo la complessità aromatica, senza essere mai dominante.
Una forte presenza di tannini in un vino rosso cancella il fruttato, in quanto esiste una sorta di antagonismo di fatto tra “fruttato” e tannino. Non a caso uno dei compiti del collaggio è liberare l’aroma dei vini giovani, padre del bouquet dei vini evoluti. La ricerca intelligente di vini “sul frutto” viene neutralizzata dall’eccesso di tannini; troppi vini “alla moda” – vale a dire destinati a passare di moda – sembrano ignorare questa legge eterna della percezione dei sapori e degli odori.
Possiamo quindi affermare che nelle variazioni del gusto causate dal bicchiere, non incide solo e soltanto il fatto che il bicchiere stesso porta il vino nel punto sbagliato della lingua, ma anche in quanto l’olfatto partecipa all’impressione del gusto (il sapore sottolinea l’odore e l’odore rafforza il sapore).
Quindi: se io tolgo profumi (causa il calice sbagliato), riduco anche il sapore (infatti i vini sono più corti); se esalto il profumo ne esalto anche il sapore = armonia del vino = giusto bicchiere.

C) Le post-sensazioni.
Sono quelle che appaiono dopo l’ingestione del vino, o comunque dopo la sua espulsione dalla cavità orale:

D) La personalità
L’elemento finale – e più importante – è la personalità del vino. Ricordo che il “maestro” Giacomo Tachis mi diceva durante le tante lezioni che mi tenne: “Un vino a volte non è perfetto secondo i nostri canoni enologici. Pensa al Vin santo, al tuo Picolit, al Recioto, al Sauternes. Invece sono straordinari e affascinano, perché hanno una personalità fortissima”.
Questo concetto l’ho poi sviluppato, tant’è che, nei miei quaderni di degustazione professionali, è il giudizio che riassume tutti gli altri. E’ quello decisivo per definire un vino promosso o bocciato.
Innegabile: un vino è grande quando ha una forte personalità. Non è forse così anche per noi umani? Le donne e uomini più affascinanti non sono i più belli, ma quelli che hanno maggior personalità. E’ quella che sorregge la bellezza interiore, quella che crea magnetismo, che illumina, conquista e rende indimenticabile una persona. Così il vino.
Qui si tratta di stile, della capacità d’interpretare il territorio e il paesaggio (definizione, quest’ultima, che deve superare la prima, inglobandola: è il paesaggio, con tutti i suoi corollari, il completamento del territorio stesso).
Il vino che ha personalità non è omologato: è la sua negazione.
Estendendo il concetto di personalità, si arriva all’emozione che il vino può accendere.
Mio padre era un ottimo selezionatore di vini per l’osteria di famiglia. Dopo ogni vendemmia, portava nel locale le diversi sue selezioni. Le prime erano i bianchi della collina di Rosazzo: Tocai, Malvasia e Ribolla gialla. Le bottiglie, rigorosamente anonime, le disponeva sul bancone affinché i clienti assaggiassero. Lui individuava ogni bottiglia con una o due o tre x. Era la sua scala di valori: dal minimo al massimo. Cosa fai papà?, gli chiesi una volta. “Segno il mio giudizio: il vino che più mi è rimasto impresso (emozionato) all’assaggio. Ora attendo quello dei clienti”. E allora? “Allora la bottiglia che finisce prima sarà la più buona”. Molto spesso il suo giudizio coincideva con quello dei clienti. Lui era così bravo che, oltre a saper leggere l’evoluzione del gusto, proponeva vini dal forte carattere. Che non si dimenticavano, tant’è che divenne l’osteria di riferimento non solo di Percoto, ma dei tanti paesi del circondario. Da Germano, era il nome di mio padre, ci sia trovava per stare assieme e bere un vino che aveva – diremmo oggi – personalità.
Diceva ancora: “Ricordati che il buono piace a tutti. Il vino deve farsi ricordare (lo diceva in friulano, con parole semplici, ma precise). Un vino deve chiamare vino, non deve stancare. Deve dare piacere di condividere questa emozioni con gli altri“. Lì capii il vero senso del bere vino di qualità: era l’emozione. Quelle sue riflessioni mai le ho scordate. Mio padre non era enologo e non era sommelier (che allora non esistevano). Era solo un uomo di buon senso, pratico, intelligente e dal palato fine. Capace di emozionarsi. Bastava.

Walter Filiputti

Bibliografia
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